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Lo specchio della (sur)realtà

| Gianluca Kamal |

Del Festival di Sanremo si deve parlare. Soltanto chi possiede la (rarissima) capacità di vivere nel mondo senza per questo essere del mondo, in ispecie quello attuale, può permettersi di parlare dello spettacolo più orrido con la giusta distanza necessaria per un’analisi sin quasi oggettiva. Osservando i dati di ascolto delle cinque serate, poi, viene quasi da sorridere pensando alle petizioni, agli appelli-grancassa social, alle campagne di boicottaggio proclamate dai santoni duropuristi della rete per invitare a non sintonizzarsi sulla televisione di Stato pur di non guardarne nemmeno uno spezzone. Coloro i quali si onorano di fare politica sono investiti di un dovere quasi morale di interessarsi ai fenomeni, “reali” o meno che siano, che accadono intorno, se non altro per saggiarne la portata a livello di opinione pubblica. Accade, o deve accadere, anche quando quotidianamente osserviamo i metodi comunicativi dei media manistream al fine di captarne il messaggio propagandistico (e non è difficile!).

Dunque, cosa ricaviamo dall’edizione appena conclusa del carrozzone canoro? Ci è sembrato di capire come il festival sia divenuto nel tempo una sorta di incontro collettivo di condivisione di problemi e turbe personali dove a regnare incontrastata è una devianza ossessivo-narcisistica che ha del patologico. Tutti parlano delle proprie esperienze, dei propri dubbi esistenziali, della propria (confusa) sessualità, e il presupposto di base è che quanto espresso abbia valore universale e interessi quindi tutti alla stessa maniera. Non ci vuole Piaget per ricordarci come l’egocentrismo intellettuale sia tipico dell’età infantile, nel quale il bambino ritiene del tutto normale che la si pensi come lui e che si debbano comprendere i suoi pensieri senza la fatica di doverli spiegare razionalmente.

Ma quello in cui viviamo (e poco operiamo) è precisamente il mondo dell’Io sopra l’Io. Del capriccio elevato a norma. Del piagnisteo considerato stile di vita finalizzato all’ottenimento, qui ed ora, del (proprio) bene. Che è sempre negoziabile in quanto privo di consistenza valoriale. Nessuna sorpresa dunque nell’udire e vedere da quel palco la fedele rappresentazione dello spirito del tempo.

Poi la lettura dell’arciannunciata lettera di Zelensky, sulla quale e sul quale è francamente impossibile restare seri dando luogo persino al commento più sprezzante (non se lo merita). E il femminismo rivendicato da influencer (!), e i diritti che sono sempre e solo quelli degli altri, la libertà che è solo quella di scegliere da chi farsi montare urlando in mondovisione che “uomo o donna, bimbo o cane, per me pari sono”, e il gelatinoso Benigni che ci ricorda che pagare il canone sia bello come la “nostra Costituzione”. Nel bel mezzo di questo goffo e simpatico circo equestre, a nulla sono valse le fervide speranze di non sentire rievocato il ricordo dei martiri infoibati di cui il 10 febbraio scendeva il doloroso ricordo. Ricordo sporcato.

Per tastare il polso e capire l’ondeggiare della propaganda, non vi è dubbio che Sanremo costituisca una fotografia sufficientemente realistica. La risposta all’interrogativo “A che punto siamo?” rispetto al processo di dissolvimento umano in atto, e che invece Agamben si poneva in rapporto al progredire del meccanismo di asservimento politico-sanitario di massa compressore di diritti, la si può trovare certamente anche da queste parti. A noi forse converrà (e non da ora), questa volta per davvero, in evidente contraddizione con quanto affermato principiando il presente scritto, non soffermarsi più su un evento che vive di commenti per far sì che si spenga. Ogni post, ogni pensiero, questo compreso, porta acqua all’imbarazzante mulino da shampiste dello strapaese. E riaffermare ovunque e dinanzi a chiunque il principio secondo cui, come ricordava il “pazzo” Antonin Artaud, “la realtà è terribilmente superiore a ogni storia, a ogni favola, a ogni divinità, a ogni surrealtà”. Basterà avere la genialità di saperla interpretare.

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