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La malalingua

“La Neolingua era intesa non a estendere, ma a diminuire le possibilità del pensiero; si veniva incontro a questo fine, appunto, indirettamente, col ridurre al minimo la scelta delle parole”. Così scriveva Orwell nel suo ‘1984’ (si badi bene, il romanzo è del 1949) e noi, dopo quasi tre quarti di secolo, non ci sentiamo certo di dargli torto. Specie se si parla della nostra, di lingua. Quella nata in seno a una delle più gloriose civiltà mai esistite, fiorita con Dante, plasmata da Petrarca e cinta d’alloro da Carducci, Pirandello, Quasimodo e Montale. Quella delle poesie dell’infanzia che ricordiamo ancora a memoria, delle filastrocche e, perché no, dei dialetti.


Peccato che di quella lingua (distacco emotivo fortemente voluto) è rimasto ben poco: ciò che sopravvive è un bagaglio culturale di reminiscenza scolastica oramai appannaggio di una esigua fetta della società unito a un’iniezione massiva e quotidiana di forestierismi provenienti da ogni campo settoriale e specialistico. Va da sé che la maggior parte dei termini importati giunge da oltremanica e affonda le radici nei linguaggi economico- finanziario e informatico di matrice statunitense.


Non è infatti raro imbattersi in una discussione da bar infarcita di anglicismi buttati a caso così per sentito dire. Ora, non ce ne vogliano i frequentatori dei bar, ma non crediamo che per ogni termine straniero ascoltato (e di conseguenza riprodotto) segua una minuziosa analisi dell’etimo con relativa applicazione all’interno del contesto comunicativo. Questo a dimostrazione che si è quotidianamente bombardati da vocaboli che vengono accettati passivamente senza nemmeno chiedersi non tanto se esista una traduzione adeguata, quanto se già ci sia un termine equivalente in italiano.


“Cosa c’entrano gli anglicismi con la Neolingua?”, verrebbe da chiedersi. “Vi dice nulla la Cancel Culture?”, verrebbe da rispondere. Dato che a una domanda non si risponde con un’altra domanda, si provvederà ad articolare una risposta quanto più coincisa ed esaustiva. Per ‘Cancel Culture’ si intende quel processo di sostituzione di modelli culturali, politici o sociali e relativa cancellazione dalla memoria storica poiché ritenuti inadeguati, inopportuni o addirittura pericolosi. Di questo processo, ahinoi, la nostra lingua non ne è certo esente. Se poi a questo contesto aggiungiamo anche la questione del politicamente corretto, possiamo dichiarare ufficialmente chiuso il cerchio.


Un insieme di forzature linguistiche interne ed esterne che negli ultimi decenni ha stravolto la lingua italiana fino a renderla quasi irriconoscibile o difficilmente comprensibile. Persa la musicalità, la ricchezza terminologica, la diretta discendenza latina, si è arrivati ad un linguaggio piatto, fluido, permeato ora da anglicismi superflui, ora da eufemismi oscuri che regoleranno la comunicazione nella Nuova Normalità a suon di censure e intelligenza artificiale. Se è vero che “nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”, ci si comincia a sentire colpevoli anche a chiamare le cose con il proprio nome o nel sostenere l’ordine naturale delle stesse passando per conservatori, nostalgici, reazionari che non collaborano alla disgregazione dell’ultimo brandello di identità rimasto. Ricordate i tempi non lontani del lockdown, dello smart working e del green pass? Ora con l’app possiamo chiamare il rider del food delivery oppure ordinare direttamente con il QR Code. Tutti benefits volti a migliorare il nostro welfare. Contenti voi …

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