Bambini di pezza per adulti di latta
Non c’è da vergognarsi. Tutti, ma proprio tutti, scrolliamo le stories in una qualsiasi piattaforma social del nostro smartiphone, che sia la mattina tra il caffé e la sigaretta, in metropolitana oppure ovunque decidiamo di avere del tempo da perdere. Nel sottobosco di Instagram, Tik Tok, Facebook o qualunque sia il cesso in cui decidiamo di cacciare la testa, si trova di tutto. Spesso e volentieri anche qualcosa di davvero inquietante. Tra le tante, troviamo il fenomeno delle “Reborn Dolls”, letteralmente ‘’bambole rinate’’.
LE “BAMBOLE RINATE”
Sono bambole dalle sembianze perfettamente umane, paragonabili a bambini dai 2/3 mesi fino all’anno compiuto (e praticamente quasi mai oltre) che vengono accudite come piccoli esseri viventi da donne intorno alla trentina o anche più, con stupefacenti affetto e dedizione tali da far impallidire il più apprensivo dei genitori alle prese con i propri pargoli (veri).
Le Reborn Dolls hanno in effetti una storia che viene da lontano. Iniziano ad essere prodotte intorno agli anni ’90 negli Stati Uniti, dapprima utilizzate dagli Studios, in seguito come oggetto da collezione per gli appassionati del genere.
Assumono un ruolo anche terapeutico solo in seguito, specificatamente nella gestione dei malati di demenza (pazienti colpiti da Alzheimer, per esempio), non senza qualche criticità sia nell’impiego della bambola da parte del personale sanitario, perplesso nell’interagire dentro il binomio bambola-adulto, sia perché nonostante sembri che l’utilizzo di tali bambole porti benefici dal punto di vista delle interazioni sociali e nella serenità del paziente, di fatto vi è assenza di un panel adeguato di casi empirici per supportare uno studio (Mitchell G, McCormack B, McCance T. Therapeutic use of dolls for people living with dementia: A critical review of the literature. Dementia. 2016;15(5):976-1001. doi:10.1177/1471301214548522).
Il tema assume contorni allarmanti quando sempre per utilizzo ‘’terapeutico’’ vengono suggerite (non è chiaro da chi) per la gestione del lutto da parte della madre verso un figlio. In questo caso non c’è nessuno studio a supporto e la comunità scientifica accreditata ha nettamente preso le distanze da tale pratica.
UNA PATOLOGIA DA DECIFRARE
Proprio all’interno di questo contesto estremamente critico dal punto di vista etico e anche spesso considerato già patologico, si inserisce l’utilizzo più mainstream delle Reborn Dolls, facilmente rintracciabile sul web. Le donne in età fertile, spesso ma non sempre senza figli, sostituiscono la bambola (quindi l’oggetto) di fatto con un infante vero. Lo vestono, lo coccolano, lo portano dal pediatra, dal dentista, a sciare, e lo nutrono con cibo commestibile destinato inevitabilmente a tornare nel piatto.
Si riprendono con lo smartphone in scene di vita quotidiana mentre passeggiano con la carrozzina agghindata nel parco o in casa a giocare sul tappeto. Se i commenti sotto ai video o alle stories pubbliche sono un compendio di sconcerto e sana preoccupazione, alcuni utenti, comprensibilmente increduli, sperano nella trovata pubblicitaria per promuovere accessori e abbigliamento per l’infanzia. Ma così non è.
Addentrandosi nei gruppi chiusi o nei forum popolati da queste “meta-madri” il quadro si chiarisce: alcune di loro vomitano rancore contro il marito reo di non aver badato alla presenza della bambola nella camera accanto durante l’atto sessuale, oppure contro gli stessi malcapitati consorti che la spostano dal divano ‘’come fosse un oggetto’’ per mettersi a guardare la tv senza la dovuta cura. Inspiegabile inoltre perché i pediatri non vogliano visitare le loro bambole: qualcuna suggerisce di mettersi comunque in fila dal medico e aspettare il proprio turno per poi andarsene poco prima della chiamata.
Se tutto questo è inconfutabilmente allarmante e anche dirompente ed incredibile per i lettori ancora all’oscuro del fenomeno sommariamente descritto, è necessario porsi la più semplice delle domande: perché? Vari professionisti, tra i quali psicologi e psichiatri, stanno approfondendo il fenomeno e le ricerche sono aperte, ma la domanda che si vuole porre in queste righe cerca di avere un significato non legato all’intercettazione del sistema patologico che convalida la questione, quanto più al complesso sistema di credenze, all’universo valoriale generale entro cui tutto ciò accade.
UN VUOTO ABISSALE
La domanda ulteriore da porsi è dunque se e come le Reborn Dolls possano o meno avere ‘’vita propria’’ al di là dei social network. Se di fatto possiamo venirne a conoscenza e anche, se, il club delle meta-madri si autoalimenta anche solo per l’apporto imitativo che la rete offre, il fenomeno ha certamente radici più profonde che trascendono dalla possibilità di mostrare le bambole. Un vuoto individuale per una maternità molto desiderata e mai ottenuta oppure per una maternità da poco passata e con la crescita (ovvia e naturale) dei figli che non sono più alla stregua di “bambole”.
Per quanto il movente personale, inesorabilmente patologico, sia da contestualizzare e rintracciare in ognuna di queste donne e in ciascuna in modo diverso, è altrettanto vero che il vuoto che in qualche modo esperienzialmente si percepisce sia legato al contesto sociale tout court.
L’INDIVIDUO E LA RETE DI COMUNITA’
Un vuoto dettato dalla totale assenza di una rete comunitaria e famigliare salda, integrata, dove l’attenzione verso le donne non sia rivolta solo ed esclusivamente alla parità di genere o alle istanze del turbo – femminismo, quanto più all’accompagnarle nel percorso di scoperta e di accettazione della non scontata traduzione in realtà concreta del naturale istinto di madre.
Per quanto in casi complessi simili i quali racchiudono insieme individualità e socialità, le risposte possano e debbano essere molteplici, è importante riflettere sul ruolo che ognuno di noi riveste: come amica, come compagno o marito, come parte attiva di una comunità che per restare umana, necessita di tendere lo sguardo verso l’altro in modo equilibrato.
Classe 1993 e boomers per scelta (non cercatela su Instagram, non c’è). Laureata in Filosofia con una tesi su la Repubblica di Platone, si ritrova da neolaureata vittima del sistema capitalista (che pensava di poter combattere dai banchi dell’università); dapprima nell’ovvio call center a 5€/ora per poi piombare prevedibilmente in una multinazionale americana nella quale ci sguazza e ci sta bene perché, in fondo, è meglio quando la cultura non dà da mangiare.
Conservatrice per alcuni, Compagna per altri, Rossobruna per gli amici.
Tante virgole e poche cose importanti: per Pensiero Verticale qualche riflessione d’attualità e altra monnezza, con un po’ di stile.